Israele è un alibi | saggio di critica ideologica
Israele è un alibi per sé, per le democrazie liberali del Nord Globale e per il tardo capitalismo in via di riorganizzazione.

Dall’attacco del 7 ottobre 2023, Israele1, con l’obiettivo dichiarato di «eliminare»2 Hamas (ma anche «distruggere»3, «sottomettere e distruggere»4, ad oggi) per garantire la propria sicurezza, ha progressivamente raso al suolo Gaza. Mentre la nostra attenzione è rivolta alla Striscia, Israele ha anche inasprito la guerra di conquista coloniale nei territori palestinesi in Cisgiordania. In pratica, l’attacco delle milizie di Hamas è stato convertito in casus belli per completare, con la copertura politica della maggior parte del Nord Globale, la conquista della Palestina storica. Questa conquista non è punto di arrivo ma punto di partenza e – senza dubbio – punto di non ritorno: forte della continuità dei confini e senza uno stato di guerra interno, Israele potrà perseguire la conquista di altri territori che, secondo fonti bibliche5, sarebbero appartenuti al “Grande Israele”6, cioè l’insieme delle terre promesse da Dio: «Alla tua discendenza / io do questa terra, / dal fiume d'Egitto / al grande fiume, il fiume Eufrate»7. Si parla dell’attuale territorio occupato da Israele, dei Territori Palestinesi (Cisgiordania, Gaza), di tutta la Giordania, del Libano (Israele ha da poco ripreso, tra l’altro, il conflitto con Hezbollah nel Libano Meridionale), della Siria sud-occidentale, di parte dell’Iraq occidentale (vicino all’Eufrate), di parte dell’Arabia Saudita settentrionale e della penisola del Sinai, in Egitto.
Sostenere che il governo Netanyahu abbia in mente questo progetto può sembrare un’illazione o una paranoia. Invece, è frutto di una precisa analisi politica. Suggerita dalla storia recente di Israele e, senza troppe interpretazioni, più volte dallo stesso capo di governo, l’ultima tre mesi fa. Prima di incontrare Donald Trump, ha dichiarato di sperare di ridisegnare («hoping to redraw») la mappa del Medio-Oriente8. Nonostante il “Grande Israele” abbia influenzato le politiche del Sionismo fin dalla sua nascita, in questo articolo mi occuperò solo dell’uso strumentale che il governo Netanyahu fa di questo mito dal 7 ottobre. Per farlo, riprenderò l’alibi come specificità della mitopoiesi, cioè della produzione di miti. Infine, l’obiettivo è comprendere la funzione di questo alibi per Israele, per il Nord Globale e per la riorganizzazione del tardo capitalismo.
Qualche precisazione di metodo
Il Sionismo dalla fine dell’Ottocento ha avuto programmi diversi e anche tra loro discordanti, perciò sarebbe più giusto da un punto di vista storico usare il plurale: Sionismi. In questo saggio, che si occupa di Israele come alibi oggi, quando parlo per approssimazione di Sionismo mi riferisco la maggior parte delle volte al Sionismo a cui si rifà il governo Netanyahu9: tra i Sionismi che individuavano nella Palestina la «Terra Promessa» (maggioritari), tra i Sionismi che hanno fondato lo Stato di Israele nel 1947, tra i Sionismi che dunque hanno sostanziato la politica di Israele fino ad oggi. Un Sionismo in continuità con i Sionismi di fine Ottocento. Però10 un Sionismo, nello specifico, suprematista. Questa precisazione non libera alcun Sionismo dalle responsabilità storiche di aver progettato e realizzato uno stato coloniale, la cui esistenza è da sempre possibile solo attraverso l’espulsione del popolo palestinese e il conseguente furto di terra.
Nella lotta politica le prese di posizione sono necessarie e inderogabili, anche a costo di riduzioni e approssimazioni. Impegnarsi nel produrre distinzioni e precisazioni mentre è in atto un genocidio significherebbe offrire il fianco al colpevole: lo stato di Israele e il governo Netanyahu. Questo saggio di critica ideologica proviene, dunque, da una presa di posizione e da una prassi politiche, con l’obiettivo di contribuire agli strumenti critici di lotta contro il nemico.
Il Sionismo e la «macchina mitologica»
Come movimento politico eterogeneo (che definì le proprie rivendicazioni per la prima volta nel Congresso di Basilea del 1897), il Sionismo è stato impegnato – per “realizzare” un luogo concreto, una patria messianica, per il popolo ebraico – tanto in strategie di occupazione della Palestina (all’inizio come insediamenti agricoli e acquisto di terre) quanto nella produzione del proprio popolo all’interno dell’Ebraismo, in particolare europeo11. Non sto sostenendo che gli ebrei europei a cui faceva riferimento il Sionismo non potessero riconoscersi in un popolo in senso etnico-culturale (o in più popoli): sostengo che considerare un gruppo di persone come popolo non implica automaticamente un programma politico di creazione di uno stato-nazione in senso Occidentale. Per questo, quella del Sionismo è una sovradeterminazione del popolo ebraico mascherata da autodeterminazione. Il Sionismo produca un popolo ebraico per il Sionismo. Sostengo insomma (e non sono sicuramente il primo) che Sionismo ed Ebraismo non siano sovrapponibili12. Nella storiografia del Sionismo e del conflitto tra i coloni israeliani e il popolo palestinese, è stato più volte sottolineato come Sionismo e antisemitismo condividessero, oltre che il medesimo “clima” (il Sionismo nasce anche in risposta al sentimento antisemita, dall’affare Dreyfus) più di un’idea di fondo13: che gli ebrei esistessero in epoca contemporanea come soggetto politico-religioso distinto e che, dunque, la soluzione alla loro presenza in Europa fosse «la colonizzazione della Palestina» e la conseguente «creazione di uno stato ebraico in quel territorio14».
Il Terzo Reich di Adolf Hitler ha usato la “razza” come strumento di costruzione identitaria: da un lato gli ariani, dall’altro tutto il resto. Ha insomma azionato la «macchina mitologica» di Furio Jesi15: un dispositivo che, in assenza della spontaneità (del trasporto genuino delle epifanie) del mito, produce attraverso “tecnicizzazione” dello stesso interessi ideologici16.
L’interesse ideologico della Germania degli anni Trenta era realizzare il nemico in chiunque minacciasse l’identità indoeuropea millenaria17, ovviamente incarnata dagli “ariani” cioè i tedeschi, dunque la società e la cultura europea. Parliamo dei popoli semitici (sia ebrei sia arabi), dei Rom, delle persone disabili, delle persone omosessuali, dei comunisti18, degli oppositori politici e via discorrendo: sotto-popoli (da «sotto-uomini», Untermenschen). Il Nazismo, come prototipo di fascismo, ha dunque fondato la propria nazione sul “girare in cerchio” del mito19 (che, ancora una volta, si riproduce su ciò che riproduce), per fare poi della narrazione identitaria una questione di prassi politica: la persecuzione, il rastrellamento, l’incarcerazione nei campi di concentramento, lo sfruttamento e le torture, dunque la soluzione finale e il genocidio sono state la conseguenza “naturale” di una mitopoiesi. L’extrema ratio.
La violenza genocida del Nazismo era diretta verso il popolo ebraico, un popolo “appena” prodotto politicamente in senso nazionalista, quando la sua identità era più diasporica, un’identità a partire sì da una cultura originaria ma ibridata a esperienze di migrazione e di contaminazione. Non certo verso il popolo ebraico per il Sionismo. Ma la forzatura identitaria del nazismo ha nutrito, in continuità con l’antisemitismo europeo, la forzatura nazionalista del popolo ebraico, cioè l’appropriazione, del Sionismo in chiave politica. Il Sionismo aveva immaginato una soluzione preventiva all’antisemitismo in ottica nazionalista, e investito sulla macchina mitologica (nonché su strategie pratiche di colonialismo) prima dei totalitarismi del Novecento. I paesi europei, a guida britannica (serve citare la Dichiarazione Balfour del 1917, quindi il mandato britannico sulla Palestina per la creazione di un “focolare nazionale ebraico”; nonché i tre “libri bianchi”, pubblicati nel 1922, nel ‘30 e nel ‘3920) e statunitense, nell’urgenza di riscattare il popolo ebraico senza mettere in campo, o poter mettere in campo, categorie identitarie non nazionaliste, hanno intercettato le rivendicazioni del Sionismo, unico interlocutore politico in-vece del popolo ebraico, con un progetto immediatamente realizzabile, per la costruzione dello stato di Israele in Palestina.
La fondazione continua di Israele
La Shoah può essere mito fondativo per Israele per due ragioni: perché è sulla base della Shoah che la politica internazionale ha finito per realizzare il progetto sionista; perché è un trauma collettivo che rappresenta un vantaggio morale eterno, la posizione politica di vittima, dunque l’accesso alla conseguente retorica.21
Mi rendo conto che parlare di Shoah come mito può sembrare fuorviante, ma il punto è proprio questo fuorviare: la violenza fascista e nazista è stata realissima; quello su cui mi voglio concentrare qui, senza accettare minimamente che questo venga letto come riduzionismo, è che lo svuotamento della Shoah è alla base del fraintendimento tra Ebraismo e Sionismo nella contemporaneità. È fondamentale affrontare la Shoah storicamente e politicamente, non solo in senso morale. Proprio il moralismo è stato il primo strumento mitopoietico.
A questo punto viene spontaneo chiedersi quale relazione persista tra il genocidio del popolo ebraico e l’attuale genocidio del popolo palestinese e in che modo la contraddizione tra l’eredità storica del primo non intervenga sull’attuazione del secondo. Io credo che questa contraddizione rientri nella macchina mitologica avviata dal Governo Netanyahu sulla base del “Grande Israele” – in una certa continuità con la storia dei governi israeliani. Come mito perfettamente biblico, cioè violento (in un senso “estetico”), la Shoah “fuorviata” si inserisce nella continuità (la diaspora del popolo ebraico, la cui sostanza è messianica) tra la fondazione passata e la fondazione futura del “Grande Israele”. Una continuità che viene rinforzata (cioè stratificata) ogni qualvolta Israele produce un evento analogo per perseguire la propria grandezza: la prima espansione di Israele con il conseguente scoppio della prima guerra arabo-israeliana e l’inizio della prima Nakba (settecentomila palestinesi costretti a lasciare la propria terra dal 1947); la Crisi di Suez e l’occupazione “provvisoria” del Sinai (1956); la Guerra dei Sei Giorni contro Egitto, Siria e Giordania che ha portato all’occupazione di Gaza, Cisgiordania e Gerusalemme Est, nonché delle alture del Golan (1967); la repressione della Prima Intifada (1987-93); la repressione della Seconda Intifada con la costruzione del muro di separazione in Cisgiordania (2000-05); l’imposizione del blocco totale a Gaza dopo la vittoria alle elezioni di Hamas e la guerra civile con Fatah (2006-07), dunque diverse operazioni successive come quella denominata “Piombo Fuso” (2008-09), e le guerre lampo del 2012, 2014, 2021; per finire, la guerra di ritorsione trasformata in guerra genocida e di conquista dal 2023 ad oggi.
Non ho spazio per citare tutte le pratiche di violenza di occupazione quotidiana che Israele ha messo in campo anche durante la sottoscrizione, o i tentativi di sottoscrizione, di accordi politici: sono sotto gli occhi di tutti. Il punto è che sono inseriti in un quadro propagandistico che li giustifica narrativamente. Anche la violenza degli atti di resistenza palestinese, in questo senso, viene sempre attratta dal mito per la sua significazione: per questo tanto una contestazione moderata quanto il 7 ottobre sono sdegnati come antisemiti. Per questo Israele può tranquillamente disumanizzare le persone palestinesi: il 9 ottobre 2023, Yoav Gallant (ex ministro della difesa) si è riferito ai militanti di Hamas, dando inizio a una serie di dichiarazioni simili, come «animali umani»22.
La macchina mitologica del “Grande Israele”:
decontestualizza la Shoah, privandola dei suoi forma e senso storici;
mobilita la Shoah dunque come ragione fondamentale della propria realizzazione, cioè risignificandola in senso messianico; dunque ripetendola ogni qual volta una violenza viene subita o perpetuata;
produce una “scissione” tra il piano morale del riscatto e il piano politico della conquista.
È una strumentalizzazione ideologica che si serve anche di un principio quasi “fordiano” di produzione: la pulizia etnica e genocidio vengono dilatate nel tempo per non oscurare la portata mitopoietica della Shoah: l’uccisione nel giro di pochi anni di sei milioni di ebrei non potrà mai essere messa in secondo piano da una strategia dalla durata di più di ottant’anni.
È una fondazione continua, nell’ambiguità che la parola contiene: riaffermare la fondazione del “Grande Israele” biblico, progettare la fondazione del “Grande Israele” futuro.

Il doppio movimento ovvero l’alibi
Questo doppio movimento fondativo (verso il passato, verso il futuro) è vitale per Israele oltre la macchina mitologica, perché Israele esiste al di fuori di essa (banalmente: per chi non è nella platea diretta del suo governo o per chi non ci crede) e per questo non può farsi trovare. Israele esiste nei fatti e nella legge internazionale (celebre la risposta di Francesca Albanese all’ennesima domanda di una giornalista: «Israel does exist»23) ma per fuggire alle responsabilità della propria esistenza non può “esistere”, deve essere sempre, sulla base del suo diritto di esistere, in predicato di esistere. In altre parole, Israele esiste come alibi. Intendo per alibi un “altrove” mitico tanto quanto un fatto giuridico. Un altrove dove il governo di Israele può sostenere di trovarsi, da un punto di vista squisitamente morale, mentre commette reati secondo il diritto internazionale (è la “scissione” di prima). L’alibi è, insomma, un «mezzo di prova indiziaria» con il quale Israele stesso, indiziato di reato, «mira a dimostrare la sua estraneità al fatto delittuoso in quanto al momento della consumazione del reato ascrittogli si trovava in luogo diverso da quello in cui il reato è stato consumato», per usare allo scopo dell’analisi la definizione che Treccani dà del significato nel diritto penale24. Non siamo sul piano dell’astrazione: il 21 novembre 2024 la Corte Penale Internazionale (CPI) ha emesso mandati d’arresto per crimini di guerra e crimini contro l’umanità nei confronti di Benjamin Netanyahu e di Yoav Gallant (oltre che del capo del braccio armato di Hamas Mohammad Deif). Come riporta Internazionale, il ministro degli esteri Gideon Saar ha dichiarato che la CPI è compromessa ed ha dunque perso ogni legittimità; Netanyahu l’ha invece accusata di antisemitismo, evocando un «nuovo processo Dreyfus»25. Netanyahu fornisce un alibi politico che non vale sul piano giuridico, ma ha valore effettuale perché la CPI deve affidarsi alle forze dell’ordine di ogni paese dal quale è riconosciuta: in occasione di ogni visita, il mandato non è stato eseguito.
Il profondo legame tra alibi e mito viene da Roland Barthes: «il mito è un valore, non ha per sanzione la verità: niente gli impedisce di essere un alibi perpetuo: gli è sufficiente che il significante abbia due facce per aver sempre a disposizione un altrove: il senso è sempre pronto a presentare la forma; la forma è sempre pronta a distanziare il senso»26. Questa necessità di trovare, pur avendo messo in campo una macchina mitologica per dare legittimità alle proprie azioni, anche come prodursi un alibi è il segno del tempo: la grande differenza, infatti, è che questo genocidio, nonostante tutti i tentativi di censura da parte di Israele (mediatica27 e politica), sta avvenendo in diretta. La politica delle immagini, che è alla base della propaganda dell’estrema destra globale, rende incontrollabile anche la circolazione delle immagini di guerra.
Il governo Netanyahu sta sfruttando il limite intrinseco delle leggi, comprese quelle internazionali: è possibile il giudizio solo se il gesto è stato, almeno in parte, già compiuto. Continuare a fare violenza sul popolo palestinese, mentre si agisce per allontanare la verità tra ciò che viene fatto e ciò che viene raccontato, significa rimandare il compimento delle proprie azioni e il giudizio delle stesse. Tutto riporta alla conquista oltre la Palestina: uno stato di guerra, cioè di emergenza, perenne che garantirebbe impunità28. Il governo Netanyahu sottrae al giudizio sé stesso e dunque Israele rifondando Israele secondo il mito della sua “grandezza”, cioè nello spazio e nei tempi di un alibi: tra il Nilo e l’Eufrate ma nel passato e nel futuro. Israele riprende a esistere in continuità della pulizia etnica e del furto di terra del popolo palestinese, la soluzione (di continuità) è occupare l’intera Palestina per poi andare oltre.
L’operazione “Carri di Gedeone” in assenza del “Grande Israele”
All’analisi portata avanti finora si potrebbe fare una critica precisa: che io stia dando troppa importanza al “Grande Israele”, dal momento che il Governo Netanyahu non ne fa menzione così spesso. È vero, ma in superficie: la propaganda Israeliana non può usare il mito del “Grande Israele” direttamente, perché contribuirebbe alla sua demistificazione, anche in quanto mito che non appartiene alla cultura europea. Rimanda ad esso, come abbiamo descritto finora, attraverso dei miti intermedi: il più grande e produttivo è l’olocausto. Sono miti di minore entità quelli tratti dalla narrativa biblica, che fanno la differenza nella comunicazione militare e nella costruzione del consenso interno (talvolta, lo vedremo, come inside jokes).
Ho cominciato a scrivere questo articolo il giorno dopo che Israele ha annunciato l’operazione militare “Carri di Gedeone” nella Striscia di Gaza dopo diciotto mesi intensi di bombardamenti. Siamo alla soluzione finale della guerra di occupazione: il governo Netanyahu punta a conquistare la Striscia.
Gedeone, secondo il Libro dei Giudici, avrebbe combattuto una guerra, sostenuto dal volere di Dio, con solo trecento uomini contro Madianiti e Amalechiti (che invece avevano raccolto un esercito di centinaia di migliaia di soldati), ma non possedeva carri (da combattimento, che invece possedevano gli antagonisti). Gli Amalechiti, secondo la tradizione della Bibbia ebraica, erano un antico popolo semitico semi-nomade, discendenti di Amalek (per Bifo un vero e proprio mitologema29), nipote di Esaù. Gli Amalechiti avrebbero mosso per primi la guerra agli israeliti dopo la liberazione dalla schiavitù egiziana; per questo, Dio a Mosé ordina per ben due volte la cancellazione della memoria di Amalek (un genocidio): sarà compito di David, in un secondo momento, avviare la guerra santa di sterminio contro di loro, inclusi donne e bambini.30
L’esercito israeliano sceglie, per l’operazione militare che dovrebbe decretare la fine del conflitto (i carri si presentificano come tank), un nome che fa riferimento contemporaneamente a una guerra impari (ma da parte israeliana) e a un successivo genocidio: omette una parte del mito biblico, per strumentalizzarlo nella sua totalità nella macchin mitologica: una guerra eroica che copre una guerra di vendetta.
Tra l’altro, per “proteggere” la popolazione palestinese residente, l’esercito israeliano la spingerebbe secondo il piano verso Sud, in una piccola area che, de facto, si configura come un campo di concentramento per lo sterminio (da enclave-prigione quale era prima la Striscia)31: è ironia nel senso etimologico, cioè dissimulazione delle intenzioni o forse direttamente dark humor (anche se io sono convinto sia anche un inside joke, una battuta ad uso interno), come suggerisce Slavoj Žižek: «quindi Israele vuole proteggere le vite dei palestinesi, ma da chi? Dallo stesso Israele»32, finendo per non proteggerlo affatto. Žižek nel pezzo sostiene anche di aver parlato con un paio di «high-ranking European officials» (ufficiali europei di alto rango) che gli avrebbero confessato che l’Europa non sta agendo diplomaticamente contro Israele perché crede che, con «confini delimitati e omogeneità etnica», un «greater Israel» (più grande Israele) potrebbe portare pace nell’area. Noi sappiamo già come derubricare questa opinione strategica: una bugia (che potrebbe anche crollare). Il contributo di Žižek alla descrizione della complessità della propaganda israeliana non si ferma qui: «ogni critica di Israele è regolarmente liquidata come anti-semitismo e come supporto al terrorismo di Hamas. Ma non era forse chiaro che il risultato di ciò che Israele sta facendo adesso in Gaza e la West Bank sarebbe stato l’aumento dell’odio antisemita? Non ha Israele, per come ha agito, non dico coscientemente, forse appositamente, accettato questo aumento al fine di presentarsi come vittima verso chi gli fornisce supporto?». Il governo Netanyahu quindi non solo, come scrive Lorenzo Poli (prima dell’esisteza dell’operazione “Carri di Gedeone”), «in una immensa operazione di strumentalizzazione del testo biblico collettivamente accettata in Israele», giustifica il genocidio verso il popolo palestinese nella Striscia di Gaza «paragonando i palestinesi agli Amaleciti e gli Israeliti agli attuali israeliani», quindi prolungando la “giustizia divina” di stampo biblico,33 ma trova persino un’alibi a questa giustificazione. Israele pratica e racconta una guerra che non è la guerra che sta avvenendo, mentre è esattamente la guerra che sta avvenendo. Un meccanismo contraddittorio e circolare possibile solo nella macchina mitologica, attraverso la costruzione dell’alibi.
Perseguire esplicitamente un futuro di grandezza per Israele significa fare il salto di qualità in termini di violenza imperialista e significa fare riferimento a qualcosa che non sarebbe più così comprensibile ai suoi principali alleati, i paesi del Nord Globale. Mentre il mito, cioè l’alibi, ha bisogno di un volto comune per essere condiviso. Per capire allora come funzioni questa esistenza di fatto che viene tradotta in una duplice esistenza (nel passato e nel futuro), bisogna capire dunque per quale ragione e con quali scopi i paesi del Nord Globale contribuiscano. È semplice: perché Israele è un alibi anche per loro.
La Shoah è un mito fondativo proficuo per la macchina mitologica di Israele anche perché ha già alimentato l’urgenza morale che ha poi spinto l’ONU a votare il piano di partizione della Palestina nel novembre del 1947 e dunque alla proclamazione dello Stato di Israele il 14 maggio 194834. Il sostegno da parte dei paesi del Nord Globale alla vendetta asimmetrica di Israele contro il popolo palestinese dopo il 7 ottobre 2023, che ha agitopretendendo di volerla distruggere per garantire ancora una volta la propria sicurezza, ripete ritualmente il sostegno politico e strategico degli Alleati nel dopoguerra, diventa anch’esso un mito: vale in particolare per Germania e Italia (colpevoli della Shoah), per la Gran Bretagna (investitore storico del Sionismo), per gli Stati Uniti e per l’URSS, dunque per la Russia e molti paesi ex URSS (liberatori del popolo ebraico dai campi di concentramento e sterminio). L’allarmante continuità del supporto della maggior parte dei paesi del Nord Globale a Israele e la seria difficoltà che hanno avuto nel criticarne le azioni mi hanno fatto pensare alla possibilità che dietro ci sia un uso strumentale, dunque la costruzione di un alibi. In particolare, l’alibi della democrazia liberale (dei suoi principali sponsor) nella sua rapida radicalizzazione a destra.

Israele è un alibi per i paesi occidentali
Mikkel Bolt Rasmussen sostiene in Fasciocapitalismo35 che i neofascismi, equivalenti funzionali, prototipi, del fascismo storico (che già veniva letto, in ottica marxista, come reazione della classe capitalista contro la classe lavoratrice), stanno ottenendo consensi nei paesi del Nord Globale per la loro capacità di rilevare la crisi del tardo capitalismo, per la loro capacità di fornire delle risposte (dunque farne un’interpretazione politica lucida, ovvero funzionale al sistema stesso). I partiti degli stati democratici liberali, per arginare (o dire di arginare) proprio i neofascismi (originariamente fuori dalla dinamica partitica), mobilitano gli strumenti a disposizione (integrati dal fascismo, che non è mai stato, appunto, sconfitto) per fare loro parte di quella interpretazione, rendendola però prassi politica. Per affrontare la crisi del tardo capitalismo (economica, ecologica, politica, geopolitica, persino affettiva) adeguatamente, infatti, l’alternativa sarebbe la messa in crisi radicale. Se il bivio è tra la chiusura del campo democratico o la rivoluzione (l’alternativa materiale), la scelta ricade sempre sulla difesa del sistema tardo capitalista.
Da qui, la progressiva de-politicizzazione36 del tema della migrazione: negli ultimi decenni, anche i partiti di sinistra hanno attuato politiche restrittive (per citarne due: la Danimarca di Rasmussen e la nostra Italia), persino il partito dei labouristi in Inghilterra ha recentemente dichiarato di voler «riprendere il controllo» dei confini37. De-politicizzazione che ha svelato la grande ipocrisia dei paesi europei che hanno inscenato un processo di de-colonizzazione solo per tradurre la coercizione diretta con forme mediate di coercizione economica. Secondo Hourja Bouteldja, infatti, gli stati europei sarebbero «stati razziali integrali» fin dall’origine. Stiamo parlando di concepire il razzismo come uno strumento sociotecnico (un «complesso di attività pratiche e teoriche») con cui l’establishment «giustifica e mantiene il suo dominio» riuscendo anche a ottenere il «consenso attivo dei governati» (citando il Gramsci citato da Bouteldja)38.
Per questa ragione i neofascismi parlano di «Remigrazione» (concetto nato in ambiente francese e poi assunto dal leader tedesco Martin Sellner, che ha organizzato a torno un movimento politico e culturale)39: individuando nel non-occidentale la causa della crisi economica e politica, propongono una difesa dalla migrazione irregolare (considerata una guerra), l’espulsione delle persone migranti regolarmente presenti sui territori nazionali e, infine, l’espulsione delle persone di seconda e terza generazione, che ritengono non aver “assunto” i valori occidentali. Dal momento che non esistono accordi coi paesi d’origine né un piano strategico percorribile, l’espulsione presuppone la deportazione. È bene sottolineare che si tratta di pratiche, eccetto l’ultima, ampiamente diffuse nei paesi del Nord Globale (basti pensare, per quanto riguarda l’Italia, alla difficoltà di ottenere permessi di soggiorno e lavoro, nonché della protezione internazionale, all’esclusività della cittadinanza, all’esistenza dei CPR).
Ma torniamo a Israele. Israele è un alibi anche per i governi dell’Occidente, oltre che per sé, perché sostenerlo significa dare senso a un ulteriore doppio movimento: potersi dire lontani dalla propria Storia (alibi ucronico), guardare in faccia il proprio destino (alibi utopico). Questo doppio movimento dà sostanza all’Unione Europea, che deve dirsi lontana dalla sua storia di guerra intestina e antisemitismo (in senso lato), mentre si proietta verso il sogno della libertà di mercato e movimento (valida solo per sé, sfruttando il Sud Globale e chiudendo il campo della cittadinanza europea). Inoltre, sia l’UE (che con Ursula Von Der Leyen sta intraprendendo una via reazionaria praticamente su ogni tema: immigrazione, lavoro, guerra, ambiente), sia governi delle democrazie liberali che assumono posizioni reazionarie (il Governo Meloni e il suo Dl sicurezza sono un esempio), sia i partiti apertamente neofascisti o neonazisti (come AFD in Germania) possono, sostenendo Israele, dirsi lontani dall’archetipo storico dei regimi fascista e nazista; proprio mentre finanziano attivamente l’esperimento della democrazia illiberale perfetta, cioè il volto del fascismo oggi. Parlo di finanziamento perché è noto che sia industrie a partecipazione statale (per esempio Leonardo ed Eni, in Italia) sia banche (come Unicredit e Intesa San Paolo), sia fondi di investimento, sia multinazionali (come McDonald’s, Starbucks e Carrefour) forniscono supporto economico diretto o indiretto a Israele, il quale lo usa per portare avanti la pulizia etnica e il furto di terra.40

Israele è un alibi per il capitale: austerità, progresso e washing
Separare l’alibi dei governi del Nord Globale e l’alibi della classe capitalista non è convincente dal punto di vista del metodo, vale solo dunque per fare ordine nel discorso (non saprei semplificare, per esempio, il compito delle Università – non solo Europee o statunitensi – che intraprendono rapporti di reciproco scambio con Università Israeliane).
Clara E. Mattei, in L’economia è politica insiste molto sul ruolo dello stato nel naturalizzare il mercato, nel «tutelare e consolidare la proprietà privata e i rapporti salariali: l’austerità serve proprio a questo. Le privatizzazioni, cardine dell’austerità, riproducono il meccanismo dell’accumulazione primitiva»41. Il ruolo dello stato a difesa dei capitali deve essere assunto, ovviamente, nelle forme di governo proprie del contesto storico: verso, quindi, la democrazia illiberale oggi. Ma voglio soffermarmi sull’austerità come riproduzione dell’accumulazione primitiva. Il tardo capitalismo, per contrastare la propria intrinseca fragilità, ha bisogno di ampliare continuamente il mercato. Insomma, funziona solo se in crescita, ma la crescita non è possibile se le risorse sono finite – come ha messo in luce la crisi climatica. Dunque, in condizioni ordinarie estende internamente il mercato attraverso politiche di privatizzazione ed austerity (aumentando la dipendenza economica delle persone). In condizioni straordinarie è “costretto” a riprodurre direttamente, senza metafora e senza mediazione, l’austerità e l’accumulazione primitiva: Israele e il governo Netanyahu, con il suo relativo strapotere militare, azzera l’agentività (la capacità politica di agire) delle persone palestinesi riducendole alla miseria e alla fame, per poi sottrarre loro terre e risorse. La “naturalizzazione” dell’occupazione militare, che condanna un intero popolo a un regime di apartheid per garantirne lo sfruttamento, diventa il nuovo standard: appunto la democrazia autoritaria capitalista. La precarietà estesa a un intero popolo.

L’alibi del tardo capitalismo, integrato nell’alibi dei governi del Nord Globale, è un alibi al secondo grado: si configura prima di tutto nel mito del “progresso”. Israele è anche luogo di avanguardia della produzione capitalista, non può essere un luogo di violenza genocida. Non è possibile che uno degli stati che sta assumendo il paradigma del neoliberismo con questa convinzione sia anche il paese che sta compiendo crimini contro l’umanità. Israele è infatti leader riconosciuto in numerosi settori della produzione tecnologica: Hi-tech e innovazione, robotica, industria bellica (nella meravigliosa dissociazione cognitiva tra industria bellica e uso dei suoi prodotti) e sorveglianza (i programmi di sorveglianza di Israele sono usati in tutto il mondo, compreso in Italia), produzione agroalimentare, farmaceutica e biotecnologie. Un riconoscimento che attira finanziamenti esteri: per Israele significa essere vista positivamente dal mercato finanziario, cioè da chi detiene politicamente l’economia mondiale (pur depoliticizzando l’economia). È ancora una volta un girare in cerchio: l’integrazione sta nel fatto che gli investimenti vadano verso settori utili per la costruzione dell’autonomia della democrazia illiberale perfetta, autonomia che possa garantire la riproduzione nel breve tempo di strategie di veloce ripresa per il capitalismo in crisi (accumulazione primitiva e austerità).
Israele è anche molto abile nelle strategie di washing, in particolare in termini di inclusività e sostenibilità, dunque di parità di genere, diritti LGBTQUIA+, disabilità, consumo vegano, pratiche ecologiche42 (come se si potesse ignorare che il genocidio a Gaza è anche un terricidio43). Prendiamo ad esempio le pratiche di inclusione e le pratiche morali dell’esercito israeliano (è un buon esempio perché tutti i cittadini e le cittadine hanno la leva obbligatoria per almeno due anni, dunque tra militari attivi e riservisti si tocca la totalità della popolazione): leader mondiale per integrazione44, attento alla discriminazione omofoba, addirittura considerato l’esercito più vegano del mondo45, con la possibilità, per chi si dichiari vegano, di avere oltre a una dieta specifica anche in dotazione stivali in pelle finta, indumenti senza lana46.
Non voglio immergermi in tutte le dichiarazioni fatte dai leader e dai media israeliani in merito all’attenzione dell’esercito nelle proprie operazioni militari, con armi capaci di individuare i militanti di Hamas e minimizzare le vittime collaterali, perché sono palesemente false. Basta ricordare il numero di morti (ben oltre le più ottimistiche stima di cinquantamila persone), la distruzione programmatica di quasi tutti gli ospedali di Gaza (raccontati come infrastrutture strategiche dietro cui si nasconderebbe Hamas, quando) o il meno immediato fatto che l’esercito israeliano utilizzi la detenzione segreta e ingiustificata, la tortura e lo stupro come strumenti di annichilimento delle persone palestinesi, in particolari di rappresentanti e leader47.
Quando l’ONU ha deciso di inserire “Israele” in una lista (assieme ad Hamas) dei soggetti politici che meno tutelano i minori, Netanyahu ha risposto che da quel momento le Nazioni Unite sarebbero state inserite nella “lista nera” dei supporter di Hamas (nonostante anche Hamas fosse all’interno del rapporto ONU) e che «l’Idf è l’esercito più morale del mondo e nessuna decisione delirante dell’Onu potrà cambiare questa realtà». Ovvio: il girare in cerchio della macchina mitologica per costruirsi l’alibi funziona proprio così. È la ripetizione di un mito svuotato dal suo significato “immediato” a renderlo vero per la strumentalizzazione ideologica. Soprattutto se il mito intesse, come abbiamo visto abbondantemente, rapporti con altri miti contigui: il luogo comune retorico dell’«esercito più morale del mondo» è, in effetti, una riproduzione in scala del topos di Israele come «unica democrazia del Medio Oriente».
La presunta attenzione per i diritti civili da parte dell’IDF è solo uno dei luoghi comuni strumentali alla presentazione di Israele come oasi dei diritti civili all’interno di una regione misogena, omofoba e in generale arretrata è al centro della produzione dell’alibi: serve a giustificare moralmente, ponendosi su un’etica completamente altra rispetto al popolo palestinese, l’uso di strumenti storici del colonialismo. Come il controllo sul corpo femminile, la violenza di genere, la violenza sessuale (anche sugli uomini), la militarizzazione degli spazi48. Questo altrove inclusivo, tra l’altro, è il luogo verso cui viene indirizzato il discorso quando i soggetti politici di sinistra si posizionano “pro-Pal”, in una sorta di wokification, strategia che sposta ogni guerra sul piano simbolico: non è possibile sostenere la resistenza palestinese perché sotto Hamas non potrebbe vivere liberamente né una donna, né una persona omosessuale o transessuale, né ci sarebbe alcuna libertà, secondo un’immagine di Hamas islamofoba, indipendentemente dalla sua appartenenza politica all’estrema destra. Se si risponde a questa argomentazione sostenendo che a Gaza, per diretta responsabilità di Israele, le donne e le persone omosessuali, tra le altre, semplicemente muoiono (né possono scegliere cosa mangiare, vista la strategia di starvation) l’accusa è di benaltrismo. Il potere di ogni fallacia retorica è portare sul piano della fallacia ogni discorso conseguente: un cane che si morde la coda.

Vorrei anche riportare l’uso delle immagini da parte di Israele, cioè fare un’incursione critica nella cultura visuale, ma rimando alle riviste che se ne occupano come linea editoriale: Not49 e Iconografie50.
L’alibi rimane in piedi anche senza consenso
Israele, come democrazia illiberale e militare, giunta a questo punto può continuare a esistere solo in un perenne stato di guerra.51 Contro la persona palestinese, contro la persona araba, cioè l’islam (secondo la sineddoche più diffusa), identificato come nemico perfetto (un nemico ancestrale): atte a produrre il popolo israeliano tanto quanto quello occidentale.52 Nemico contro cui sperimentare la via (violenta) per la riorganizzazione del tardo capitalismo in crisi. Israele è il laboratorio in cui si sta inscenando il successo dei futuri fascismi, attraverso una prassi imperialista e l’alibi della “grandezza” (due facce della stessa medaglia): per questo il “Grande Israele” è per il governo Netanyahu ciò che il movimento MAGA (Make America Great Again) è per Trump, o il movimento MEGA (Make Europa Great Again) è per ogni organizzazione di estrema destra in Europa. Anche se c’è una profonda differenza: la “grandezza” a cui mira Israele è “utopica”, di un’utopia ancestrale, una benedizione (la maledizione è dovunque, finché il “Grande Israele” non verrà realizzato); la “grandezza” a cui mirano MAGA e MEGA è un passato nostalgico, un tempo in cui tutto sembrava essere più semplice, durante i quali i rapporti di potere erano ben chiari, ovvero il Dopoguerra.53
Questa dimensione laboratoriale di Israele potrebbe essere ulteriormente suggerita dall’estrema libertà con cui Trump ha potuto svelare i piani degli Stati Uniti per la Striscia di Gaza, occultandoli prima in un video fatto con l’AI in cui tutto era un’allucinazione di prosperità54; per poi svelarle durante l’incontro di aprile scorso con Netanyahu: Gaza sarebbe infatti «un importante pezzo di una grande proprietà immobiliare»55.
L’alibi è talmente ben costruito che, se le democrazie occidentali e la classe capitalista decidessero di cambiare strategia e condannare Israele, l’altrove rimarrebbe comunque in piedi, in negativo. Dopo venti mesi di mobilitazioni dal basso per rendere visibile il genocidio del popolo palestinese56 sia i governi sia i media sembrano improvvisamente essere più ricettivi (quasi un anno e mezzo dopo la coraggiosa presa di posizione del Sudafrica57). L’aria sta cambiando58: persino l’Europa ha cominciato a prendere formalmente le distanze da Israele59. Rivoluzione politica assolutamente auspicabile perché potrebbe costringere Israele, col tempo, ad accettare di firmare una tregua definitiva con Hamas. Il problema è che questa “rivoluzione”, avendo come obiettivo l’Israele per Netanyahu dietro al suo alibi, non metterà minimamente in discussione Israele come stato coloniale e soprattutto alimenterà l’alibi dei nostri governi: quando verranno accusati di essere stati complici, di aver a lungo supportato economicamente, politicamente e strategicamente Israele, risponderanno con un altrove, cioè con una sostituzione. Può anche essere stato vero, ma la nuova verità è che, ancora una volta, al momento giusto è arrivata la condanna, la ferma opposizione. Come allora (alla fine della seconda guerra mondiale) gli Alleati si sono opposti e hanno persino scelto la strada della riparazione.
La conferma di questa ipotesi viene se osserviamo che, mentre governi e media accolgono il moto di coscienza, le aziende non fanno altrettanto: non è possibile ignorare il disavanzo di profitto accumulato in questi venti mesi di guerra. La condanna dell’operato di Israele non porterà immediatamente alla tregua definitiva perché il primo passo è persuadere attraverso l’economia: sanzioni, embargo sulle armi, interruzione delle collaborazioni di ogni genere, blocco di capitali. Dunque attraverso la forza: cioè con l’invio di una forza di interposizione internazionale a difesa del popolo palestinese60, con l’obiettivo di far rispettare e applicare la risoluzione dell’Assemblea Generale dell’ONU del 18 settembre 2024, che include il ritiro dell’IDF dal territorio occupato, la restituzione delle regioni annesse illegalmente61, l’avvio di un programma di ricostruzione e restituzione.
Già sul pezzo di DinamoPress del 27 maggio è espostal’ipocrisia dell’occidente, che si comporta come il protagonista del Gattopardo (cambiare tutto per non cambiare nulla), versa lacrime di coccodrillo, con l’intenzione di coprire la propria natura di sciacallo62. Il cambio radicale di segno nel consenso politico internazionale porterà, prima di tutto (e forse, purtroppo, anche da ultimo), alle condizioni di una redenzione dell’occidente di fronte a questa guerra genocida: il funzionamento dell’alibi, dentro e fuori alla macchina mitologica, è proprio questo, fornire già un’exit strategy.
Post Scriptum
Israele continua a essere uno stato coloniale in Palestina che ha perpetuato crimini contro l’umanità fin dalla sua fondazione e che adesso punta alla pulizia etnica e al genocidio del popolo palestinese. Nonostante, stando alle ultime notizie, Israele sarebbe d’accordo a firmare la tregua temporanea suggerita dall’inviato speciale statunitense in Medio Oriente Witkoff. Hamas è contrario, perché l’unica richiesta accettabile è la tregua definitiva. Al di là delle valutazioni politiche, Netanyahu può dirsi pacifista mentre annuncia la “legalizzazione” di ventidue insediamenti coloniali in Cisgiordania, mentre dichiara che il popolo palestinese non soffra la fame (che, insomma, i prigionieri, civili e militari, nelle carceri israeliani sono normopeso o addirittura sovrappeso appena arrivati)63, mentre continua a bombardare la Striscia di Gaza64. Israele ha integrato l’alibi nella sua strategia di violenza. Resta da capire come disinnescare l’alibi, mentre si ferma la violenza.
Numerose realtà e organizzazioni palestinesi in Italia usano “Israele” tra virgolette (quando costrette a nominarlo direttamente; in sua vece è usato “Entità Sionista”) per problematizzare fin dalla sua nominazione il riconoscimento dello stato a livello internazionale, per richiamare la sua natura coloniale. Ho avuto fino all’ultimo il dubbio se adottare la grafia tra virgolette o meno, anche per rilevare la polisemia di “Israele”, inteso come stato de facto e come mito. Ho scelto di scrivere Israele senza virgolette perché, alla fine, è un preciso soggetto giuridico e politico a sganciare le bombe sulla Striscia di Gaza, ad affamarne la popolazione Ai fini del mio discorso demistificatorio, è importante sottolineare che Israele c’è (dunque, distinguerlo dal “Grande Israele”, tra virgolette). Va da sé che la scelta delle organizzazioni palestinesi, in particolare di Giovani Palestinesi, è perfettamente coerente con la lotta politica che portano avanti.
In Genesi 15:18-21, Numeri 34:1-15 e Ezechiele 47:13-20, direttamente dalla pagina Wikipedia “Grande Israele” (che, tra l’altro, include una precisazione utile: in ebraico non esiste un corrispondente di “Grande Israele”, che è invece una traduzione, poi vulgata, di lingua inglese).
Non c’è alcun fondamento legale secondo il diritto internazionale che il “Grande Israele” possa essere esistito o possa tornare a esistere. Secondo numerosi studi storici e archeologici, non ci sono prove neppure a sostegno dell’esistenza di un regno unificato di Israele come descritto nella Bibbia (il Regno di David durante l’età dell’oro, dall’XI secolo a. C.). Le narrazioni bibliche vanno considerate come mitologiche o simboliche.
Antico Testamento, Genesi, 15:18. Chissà perché, ogni qual volta che viene citato questo passo, si dimentica di citare quello immediatamente successivo: «la terra dove abitano i Keniti, i Kenizziti, i Kadmoniti, [20] gli Ittiti, i Perizziti, i Refaìm, [21] gli Amorrei, i Cananei, i Gergesei e i Gebusei"».
The Economist su YouTube. Un discorso che andrebbe analizzato a fondo è quello del settembre 2024 all’Assemblea Generale dell’ONU. Mentre passa in rassegna i nemici di Israele, infatti, Netanyahu comunica che l’unico modo di riportare equilibrio in Medio Oriente è la vittoria totale. Qui un articolo di Cinzia Sciuto su Micromega che fa questa stessa lettura.
Ovvero il Sionismo a cui la maggior parte delle persone pensa.
Usato sia in senso avversativo sia in senso dimostrativo (etimologicamente, da per hoc).
Dalla voce Treccani di Sionismo, che sottolinea tre “tendenze” emerse dal Congresso di Basilea: «la prima, pratica, vedeva nella colonizzazione agricola della Palestina il mezzo per restituire agli Ebrei la loro dignità umana e per far valere in futuro effettivi diritti sul territorio, e trovò il suo strumento nel Qeren qayyemeth le Yiśrā’ĕl («Fondo permanente per Israele», noto come Fondo nazionale ebraico), creato nel 1901 allo scopo di acquistare terreni in Palestina; la seconda tendenza, etico-religiosa, si batteva per un ritorno alla tradizione e la rinascita di uno spirito nazionale e dei valori culturali e religiosi dell’ebraismo; infine la tendenza politica mirava a ottenere la concessione di una ‘carta’ internazionale che autorizzasse e tutelasse l’immigrazione ebraica in Palestina».
Naomi Klein suggerisce un esodo dell’ebraismo dal Sionismo, sul Guardian, We need an exodus from Zionism, 24 aprile 2024.
Ilan Pappè lo spiega molto bene nel capitolo 2 di 10 miti su Israele (Tamu, 2023).
Ivi, p. 58.
Strumento di indagine elaborato da Furio Jesi in tutta la sua opera, in particolare La festa (Rosenberg & Sellier, 1977), Materiali mitologici (Einaudi, 1979), Cultura di destra (Garzanti, 1979) e il postumo Mito (Nino Aragno, 2008).
Un esempio: il regime fascista di Mussolini, può svuotare il mito della romanità attraverso delle “tecnicizzazioini”, ovvero interpretazioni e ripetizioni, per fabbricare una nuova identità eroica per lo stato italiano.
Non posso qui approfondire l’uso strumentale delle scoperte della linguistica e dell’archeologia sull’indoeuropeo e gli indoeuropei. Rimando ai numerosi studi fatti a riguardo.
Gli ebrei e i comunisti erano il più delle volte gruppi sovrapposti: Karl Marx, nel Mein Kampf di Adolf Hitler, viene citato la prima volta come «Ebreo».
Sempre Furio Jesi.
In quest’ultimo (disponibile qui in inglese), la conferma (col supporto della Società delle Nazioni) del mandato britannico sulla Palestina. In questo documento colpisce la consapevolezza della profonda destabilizzazione che il progetto coloniale sionista stava creando. Addirittura, più volte viene espressa preoccupazione e vengono individuati dei limiti all’occupazione delle terre, all’aggressività della stessa, all’immigrazione. In questa consapevolezza si potrebbe intravedere (con spirito interpretativo) uno degli obiettivi dell’impero britannico: impedire la creazione di uno stato di Palestina in senso moderno e, dunque, destabilizzare fin da principio il Medio Oriente, per prevenire la creazione di un nuovo impero arabo.
Per una lettura “traumatica” della ferocia e della crudeltà del governo israeliano dopo il 7 ottobre, rimando a Pensare dopo Gaza. Saggio sulla ferocia e la terminazione dell’umano (Time0, 2025) di Franco Berardi Bifo, anche se non mi ha del tutto persuaso la sua lettura “psicanalitica”. Scrivere che «Non è la ragione a spiegare le vicende della storia, particolarmente le sue tragedie, ma l’elaborazione del trauma» (p. 28) può significare “capire” («comprendere le cause, le origini, i motivi che non sono ragioni», p. 27) mettendo in secondo piano la direzione che alla storia viene impressa da chi detiene potere e mezzi di produzione. Mi rendo conto che, però, nella filosofia di Bifo la lettura è perfettamente coerente.
Roland Barthes, Miti d’oggi (Einaudi, 2016), p. 205.
Anche, violando ogni consuetudine, prendendo di mira direttamente la Stampa autorizzata sulla Striscia (dal momento che la stampa internazionale praticamente è esclusa dalla cronaca del conflitto. Secondo Infopal, Israele ha ucciso almeno 214 giornalisti, la maggior parte palestinesi (link qui).
Il rimando al campo semantico del processo è centrale: se deve esserci un processo, che venga ritardata la sua conclusione fino alla prescrizione (cioè alla dimenticanza).
Bifo dedica in Pensare dopo Gaza un paragrafo ad Amalek, da p. 46 a p. 50: Ma chi è questo Amalek?
Per una approfondita comprensione della strumentalizzazione da parte del governo di Netanyahu delle fonti bibliche riguardanti Amalek, rimando al pezzo di Lorenzo Poli su Invictapalestina (Centro di Documentazione sulla Storia, Cultura, Tradizioni della Palestina), “Ricordati di scordare Amalek”, la giustificazione biblica del genocidio a Gaza, 29 luglio 2024. La menzione a Poli viene da Bifo ma attraverso un lapsus: il filosofo cita Riccardo Paredi, autore invece per Oasiscenter di Ricordati di scordare Amalek, o la necessità di passare dal mito al mite, 15 novembre 2023.
Lorenzo Poli su Invictapalestina, “Ricordati di scordare Amalek”, la giustificazione biblica del genocidio a Gaza, 29 luglio 2024
Il giorno dopo l’inizio della prima Nakba, «catastrofe» in arabo come Shoah è «catastrofe» in ebraico: lo spossessamento della terra dei palestinesi (con la conseguente diaspora) giustificato con il genocidio degli ebrei.
Mikkel Bolt Rasmussen, Fasciocapitalismo (Edizioni Malamente, 2024).
Assunzione trasversale al colore dei partiti politici.
Houria Bouteldja, Maranza di tutto il mondo, unitevi! (DeriveApprodi, 2024), p. 28
I “Remigration Summit” sono veri e propri convegni durante i quali Sellner e il suo gruppo vendono il concept della remigrazione ai partiti delle destre europee. Il 17 maggio si è tenuto in Italia, precisamente a Gallarate (Varese): le contestazioni sono state tantissime, tra cui è importante sottolineare le piazze della città di Milano. Quella “istituzionale” ha comunicato circa trentamila adesioni; quella di “movimento”, repressa con idranti e gas lacrimogeni perché intenzionata a raggiungere il teatro dove si stava svolgendo il summit, circa duemila. Questo non tanto per mostrare, muscolarmente, la differenza nei numeri, ma per fare una cattiva profezia: anche la “remigrazione” è uno strumento che potrebbe essere integrato in una macchina mitologica. Sono alla ricerca della fondazione.
Clara E. Mattei, L’economia è politica (FuoriScena, 2023), pp. 44-45.
Sull’uso come arma contro i palestinesi della sostenibilità rimando ad Andreas Malm, Distruggere la Palestina, distruggere il pianeta (Ponte Alle Grazie, 2025).
Sul sito dell’esercito israeliano, l’IDF, ci sono tantissimi articoli che celebrano l’integrazione di genere. L’ultimo è questo.
Ne parla in ottica antispecista Marco Reggio in Vegan antispecista. Per la liberazione umana e animale (Eris, 2024), pp. 15-20.
Ho preso il primo articolo che è saltato fuori dalla barra di ricerca di Google, con le parole-chiave “torture esercito israeliano”.
Per approfondire: Nada Elia, La Palestina è una questione femminista (Alegre, 2024).
Iconografie XXI ha dedicato alla Palestina Angurie. Sulla Palestina nel XXI secolo, Vol. I, Anno IV, uscito nella primavera 2024.
Il 29 maggio 2025 Netanyahu ha annunciato, nonostante le pressioni internazionali, la legalizzazione di numerosissime colonie in Cisgiordania. Vuol dire solo una cosa: la mobilitazione di altri coloni verso altri territoti. L’articolo di Il Fatto Quotidiano qui.
Lo “scontro di civiltà” tra Occidente e Medio Oriente, cioè tra cristiani e musulmani è un topos, un luogo comune della politica e della storiografia.
Mi autocito che cito Mikkel Bolt Rasmussen, imperdonabilmente: «L’utopia dei fascisti di oggi è «molto meno grandiosa» di quella degli stati totalitari di primo Novecento: sognano «il consumo di massa del dopoguerra» e soprattutto un mondo più semplice, un mondo nel quale “bene” e “male” sono individuabili subito (quindi anche un “noi” e un “loro”), un mondo in cui tornano a essere rispettati dei ruoli sociali: il terrore di un’assenza di limiti – la mobilità dei nuovi “soggetti” del sociale – va in questa direzione. Per i fascismi è inaccettabile la “fluidità” e l’autodeterminazione dei corpi, ma è inaccettabile anche fuoriuscire dall’idea di famiglia. Perché chiediamo ancora l’«inclusione» in questo sistema fondato sulla violenza? È la domanda che si poneva Brigitte Vasallo in Linguaggio inclusivo ed esclusione di classe (Tamu)». Su Milano In Movimento, Dieci punti per ritrarre il nemico – a partire da Fasciocapitalismo di Mikkel Bolt Rasmussen, 9 marzo 2025.
Parlo del video in cui, a un punto, compare la Trump Gaza, ovvero un grattacielo, con l’inquietante equivalenza grammaticale tra la regione (Gaza) e una tipologia di costruzione (la Tower).
Video qui su LaPresse.
Solo in Italia, l’occupazione di numerose università durante le intifade studentesche, per chiedere l’interruzione degli accordi con le università israeliane, e un numero enorme di cortei, cittadini e nazionali.
Il Post, È cambiata l’aria attorno a Israele, 23 maggio 2025. Cito Il Post, perché no, anche ironicamente: è stato uno dei giornali, soprattutto per mezzo del prodotto di punta, cioè il podcast Morning condotto da Francesco Costa (convintamente atlantista), a fare una certa resistenza all’impiego della parola “genocidio” in merito a ciò che sta succedendo a Gaza dal 7 ottobre 2023.
Come sottolinea DinamoPress in Fra gattopardi, coccodrilli ed avvoltoi: quale svolta per la Palestina?: «Ma gli unici reali strumenti di pressione politica sul Governo Netanyahu sono sanzioni, boicottaggio accademico ed embargo sulle armi, fino all’unica azione in grado di fermare probabilmente e realmente il genocidio: l’invio di una forza di interposizione internazionale a protezione dei/lle palestinesi, come ha ricordato Francesca Albanese, Relatrice Speciale dell’ONU per il Territorio Palestinese Occupato. La risoluzione 377 A del 1950 dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite “Uniting for Peace” prevede infatti espressamente questa possibilità nel caso in cui il Consiglio di Sicurezza non adempia al proprio mandato di mantenere la pace e la sicurezza nel mondo. Non si capisce d’altronde perché una “coalizione di volenterosi” sia all’ordine del giorno per l’Ucraina, ma non per la Palestina. Inoltre, il richiamo, ora tornato di moda, al rispetto del diritto internazionale non può essere à la carte: il parere del luglio scorso della Corte Internazionale di Giustizia dichiara illegale l’occupazione dei Territori Palestinesi occupati e di Gerusalemme Est e condanna il regime di apartheid cui è sottoposta la popolazione palestinese».
Qui una sintesi di Amnesty International: «Israele deve rispettare immediatamente la risoluzione ritirando le sue forze armate dalla Cisgiordania, inclusa Gerusalemme Est, annessa illegalmente, e dalla Striscia di Gaza, occupate dal 1967. Inoltre, Israele deve smantellare gli insediamenti israeliani nella Cisgiordania, compresa Gerusalemme Est, e annullare la sua annessione illegale, sia dal punto di vista legale che pratico».
Ibid.